Di Sergio

Sulla strada. On the road. Il romanzo che lancia lo scrittore di Lowell nell’olimpo del successo, che prima di farsi economico si fa mito tra le strade d’America e del mondo. Scritto di getto, rapido e veloce come una bevuta, nel 1951 Jean-Louis (il nome di battesimo) torna a casa dalla moglie e passa tre giorni a scrivere su un rotolo di carta per telescrivente. Getta un fiume di parole, agili e spontanee, provenienti dalle sue esperienze in giro sulla strada, del suo vagabondare errante nel continente americano da costa a costa, da oceano ad oceano, all’inseguimento dell’amico e fedele compagno di sbronze Neal Cassady, la principale fonte d’ispirazione per il personaggio comprimario del vangelo beat, Dean Moriarty. È nel luglio del ’47 che Jack, deciso a raggiungere l’amico a Denver, intraprende il primo viaggio attraverso il Nord America, viaggio che poi costituì la spina dorsale del libro. A Denver rintraccia tutti i suoi amici, eccetto Neal. Poi va a San Francisco, dove lavora come guardia notturna, vivendo in una baracca e spedendo quasi tutto il salario a sua madre, finché (ovviamente) viene licenziato. Denver, Città del Messico, San Francisco, Detroit. Avanti e indietro come una foglia al vento Jack vive alla giornata, beve e si ubriaca, lavora nei campi e sopravvive come può. Passa alcuni mesi a drogarsi da solo ma la morfina lo esaurisce fisicamente: le vertigini e la nausea che gli provoca, gli impediscono di diventare tossicodipendente. On the Road tratta proprio di questo, dell’incontro fatidico fra Sal Paradise, il personaggio che rappresenta Jack, con Dean Moriarty, il personaggio che rappresenta Neal Cassady e di quel periodo della vita che lui stesso definì “la mia vita sulla strada” alla maniera degli hobo (un vagabondo senza tetto che sceglie di esserlo), parla dei suoi viaggi, in parte in macchina in parte in autostop, attraverso gli sconfinati mondi degli Stati Uniti.

«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»«Dove andiamo?»«Non lo so, ma dobbiamo andare».

Cosa può trasmettere ad un giovane, oggi, un romanzo di giovani un po’ folli e molto ubriachi che attraversano in lungo e in largo la terra invece di lavorare? Insomma, non sono i classici buoni esempi da seguire, e non sono nemmeno facilmente inquadrabili da un punto di vista ideologico: Jack fu arrestato per favoreggiamento quando aiutò l’amico Lucien Carr a disfarsi del coltello usato per un efferato omicidio, Jack non passò attraverso i campi di battaglia della Seconda guerra mondiale perché venne riformato dalla Marina Militare per “inadeguatezza al servizio militare” accompagnato da una cartella clinica che spazia dalle allucinazioni uditive alle “ossessioni per i grandi problemi filosofici” passando per una diagnosi di “psicopatico costituzionale e personalità schizoide”. Forse semplice insofferenza alla disciplina militare. Vigliaccheria? No, vile sicuramente non era, data la sua predisposizione quasi ossessiva alle risse e ai guai di ogni sorta. Quindi dicevamo, qui non parliamo di uno stinco di santo da far sposare alla propria figlia, ma di uomini fatti (anche di morfina) che non avevano nulla di quel perbenismo di facciata della borghesia americana post-bellica. I precursori della Beat Generation come Jack avevano capito che la rivoluzione contro il sistema capitalista doveva partire dal basso, prima culturale che politica. I beat vissero Sulla Strada e su quei pilastri di Identità, Partecipazione e Comunità, ben lungi dalle comunarde in salsa sovietica e dai moderni centri sociali. È sulla scia di Ezra Pound che Kerouac rivive quella poesia vivente che mosse il mondo con la missione di affrancare gli spiriti dalle catene dell’usura: l’usura intesa come precarietà della vita, del lavoro, contro quella cultura di eterno debito che relega l’uomo al denaro, subordina la vita al quieto vivere, la natura al progresso, le pulsioni umane (eroiche ed erotiche) alla morale del gregge.

Pound era un buon diavolo, anzi, il mio poeta preferito”, fa dire Kerouac a Japhy, uno dei protagonisti dei Vagabondi del Dharma, del 1958. Se non bastassero queste parole – scritte in tempi ancora fecondi del sangue versato solo pochi anni prima in tutto il mondo per estirpare la rivolta dei Fascismi – a suggellare il rapporto tra i fondatori del Beat e il poeta volontario della Repubblica Sociale furono proprio i beatnik: durante la campagna presidenziale del 1952, che vide la vittoria di Eisenhower (durante la guerra comandante supremo delle forze alleate in Europa), arrivarono addirittura a scrivere Ez for Pres sulla cinta esterna del St. Elizabeth’s Hospital, il manicomio dove il grande poeta era recluso già da sette anni per collaborazionismo, dove ancora stava condividendo lo stesso tragico destino dei non allineati, gli imperdonabili eretici che da Hamsun a Brasillach subirono l’ira dei vincitori. Un gesto di non poco conto, se immaginiamo il clima politico dei primi anni cinquanta, in cui negli Stati Uniti o si era americani doc, oppure pericolosi e sovversivi comunisti. È il periodo della caccia al rosso, il famigerato Maccartismo, una stupida caccia alle streghe che trasformò involontariamente, quasi di riflesso, qualsiasi tipo di contestazione al sistema come comunista e consegnò schiere di intellettuali ed artisti all’armata rossa della sinistra internazionale. Non proprio un buon periodo per inneggiare ad un fascista convinto, che non rinnegò mai la sua adesione alla RSI e che appena fu di nuovo libero tornò subito in Italia.

Una fascinazione imperdonabile, che valsero più di una scomunica a Keoruac anche in Italia. Fu su Agenda Rossa, per citare un esempio nostrano, che liquidarono Kerouac come “pessimo scrittore, mediocre filosofo e politico qualunque”. Un clima di Maccartismo au contraire, testimoniato autorevolmente dalle parole di Fernanda Pivano: “In quegli anni era molto chiara l’ostilità della sinistra italiana verso autori come Kerouac. Io sono stata anche licenziata come consulente della Mondadori perché facevo pubblicare quegli autori beat sgraditi all’élite intellettuale di sinistra”. Del resto non potevano piacere ai borghesi radical chic, quei personaggi che la Pivano descrive così nella prefazione alla prima edizione italiana di On the road: “Costretti a vivere in una società anonima nella quale non riescono a credere, la sfuggono creandosi una società autonoma e vivono in piccole bande più o meno segrete secondo un codice primordiale basato sull’inviolabilità dell’amicizia”. No, proprio non potevano piacere quei ragazzi che per maestri si erano scelti Céline, Fante e Pound. Non poteva piacere il maledetto Jack, nemmeno ai suoi, dai quali si allontanò proprio quando iniziarono ad intraprendere i passi verso la già citata trappola rossa. È singolare che Kerouac fosse “celebrato come l’incarnazione di un movimento che lui non aveva né il desiderio né la capacità di promuovere”. Lui che, seppur di origini modeste, era il più aristocratico degli scrittori beat. Lui che tutto avrebbe voluto farsi meno che uomo-manifesto, quasi insofferente nel dover recitare un ruolo che non era il suo. “Sono così impegnato a intervistare me stesso nei miei romanzi, che non vedo perché ho dovuto soffrire ogni anno degli ultimi dieci anni a ripetere a chiunque mi ha intervistato quello che ho già spiegato nei libri stessi”. Quel che c’era da raccontare, l’aveva fatto nei suoi libri. Per il resto, riteneva di non avere molto da aggiungere. Punto. Poco a che vedere con quegli scrittori, di talento infinitamente minore, che si amministrano e si autopromuovono con furbizia, presenziando qua e là, badando più a infiocchettare la confezione che a scrivere con sincerità. L’insofferenza di Kerouac nei confronti dei suoi discepoli cresce di anno in anno e lui stesso, padre di quel movimento, non esiterà a farsi beffe di loro. Un episodio è significativo per descriverne la sua visione aldilà della destra e della sinistra: infatti, fu durante un’assemblea di beatnik che lo scrittore lesse una sorta di programma politico-culturale della generazione, parlava della volontà che ci unisce al fine di difendersi contro lo spirito di classe, la lotta delle classi, l’operaio di classe. Noi andiamo a vivere presto in comune la nostra vita e la nostra rivoluzione! Una vita comunitaria per la pace, per la prosperità spirituale, per il socialismo”. Pubblico in visibilio, alternativi in brodo di giuggiole. Salvo raggelarsi, poco dopo, quando Kerouac svelò che quello che avevano appena applaudito con tanta veemenza era un discorso pronunciato da Adolf Hitler al Reichstag, nel 1937.

Fece suo il motto “Right or wrong, it’s my country”. Giusto o sbagliato, è il mio paese. Sino a difendere, paradossalmente, lo stesso intervento in Vietnam. Riprova di questa impostazione d’animo dell’autore, in netta controtendenza alle istanze beatnik dell’epoca, furono le sue dichiarazioni sulla guerra in Vietnam che in Italia, in particolare a Napoli, gli costarono l’epiteto di “fascista”. Racconta il viaggio italiano di Kerouac Elio Chinol, traduttore italiano, che a sua volta cita l’onnipresente (quando si tratta di letteratura americana) Fernanda Pivano protagonista degli avvenimenti. Kerouac era un alcoolizzato e conviverci non dev’essere stato facile, tra barriere linguistiche e di lucidità mentale. Nel 1966 lo scrittore fece tappa a Milano, Roma e Napoli, invitato dalla Mondadori. Usciva allora l’edizione italiana di Big Sur. “Alla fine si convinse e riuscimmo a portarlo a Villa Pignatelli” racconta la Pivano. “La sala era gremita. Le prime file erano occupate da una variopinta schiera di giovani beat, impazienti di rendere omaggio al Maestro. Ci si poteva aspettare un’apoteosi, finì in un tumulto. Dietro i beat, sparsi qua e là, forse meno numerosi ma più decisi, c’erano i contestatori. A loro non importava proprio niente dei nostri discorsi letterari. Quando venne il suo turno e Kerouac si alzò per rispondere alle domande del pubblico, si fece avanti un piccolino tutto nero, occhialuto, faccia tesa e intellettuale: voleva sapere cosa lo scrittore pensasse della guerra americana nel Vietnam. La trappola stava per scattare. Kerouac si buttò sull’esca con la bocca ancora impastata di birra e cognac. Stentava a parlare. Disse comunque che lui le cose le considerava sempre sotto l’aspetto umano e umanamente non poteva che essere dalla parte dei soldati americani, i G.I., tutti bravi ragazzi, nice guys che non facevano che il loro dovere, come ad esempio il suo amico tal dei tali, un tipo davvero straordinario, e poteva dirlo perché lo conosceva bene dato che per mesi e mesi aveva mangiato con lui e bevuto con lui e con lui dormito nel sacco a pelo e girato tutta l’America…”. Ecco, Kerouac ha fatto l’irreparabile: si è dichiarato patriota! “Prima furono fischi, poi insulti roventi: Buffone! buffone e fascista! Si dovette portar via lo scrittore facendolo passare da un’uscita secondaria”. Perché lui, nonostante tutto, amava l’America. Amava l’America anche se la chiamava “fellaheen”, prendendo a prestito la parola che uno storico tedesco da lui particolarmente amato, Spengler, aveva usato per definire il sottoproletariato del mondo. La sua era la speranza in un’America nuova, libera dalla morsa del conformismo. E allora il suo viaggio assume il valore di una ricerca cavalleresca che sembra richiamarsi allo spirito dei primi pionieri americani che si spingevano coraggiosamente verso est e al mito della frontiera. Il suo viaggio su questo mondo finisce il 21 ottobre del 1969. Capolinea. Non è morto da eroe, nemmeno da vagabondo errante come il suo fratello di s-ventura Neal: morto l’anno precedente, il suo corpo ritrovato ai margini di una ferrovia con jeans e maglietta, alcol in mano e barbiturici in tasca. Jack si spegne giovane, consumato dall’alcol e dal successo mentre siede davanti alla tv. Probabilmente odia sé stesso mentre vomita sangue, il fegato che cede a causa della cirrosi epatica mentre le vene dell’esofago si rompono provocando una grave emorragia interna. Ventisei trasfusioni di sangue non bastano. Muore così, senza mai aver ripreso conoscenza dopo il trasferimento in ospedale. Forse è giusto, forse se l’è cercata: in ogni modo è la degna conclusione di una vita che ha bruciato tutto prima di spegnersi. Un tizzone che seppur per breve tempo, ha illuminato il mondo con un lume di speranza. La speranza di una vita fuori dagli schemi preconfezionati, fuori da sé stessi e dalle prigioni della nostra mente.

Vivere è gettar ponti su fiumi che se ne vanno”.

Scrisse così Gottfried Benn, poeta tedesco non allineato. È la sostanza delle vite che si esauriscono prima della vecchiaia, prima del naturale infiacchimento della volontà, prima che la vita diventi solo un lento trascinarsi di giorni nella noia e nell’attesa. Annoiarsi significa morire ancora prima della propria fine biologica, meglio vivere con un sorriso, una risata, ben saldi sulle mura delle nostre scelte e decisioni. Gettare il ponte per l’uomo che verrà, sicuri che dalle mura che abbiamo innalzato una risata invaderà il mondo, infettando di coraggio il laborioso peone dell’antichità chino sul suo lavoro”. Una risata contro i vecchi decrepiti che hanno dimenticato il coraggio, una risata contro il politicamente corretto e la decrescita felice, una risata contro chi non lavora per vivere ma vive per lavorare, contro chi non ha nulla di più importante di lui stesso, contro chi è schiavo perché aspetta che qualcuno venga a liberarlo, contro chi trova sempre una scusa, contro chi ha tutto ma in fondo non ha nulla.

Sulla strada. Cosa lascia ai giovani, ci chiedevamo all’inizio. Perché dovrei leggerlo? Ti chiederai. È un libro che lascia la vista di un mondo che si dispiega sulla propria volontà e non sulle proprie paure. Sì, perché in un mondo come quello di oggi in cui la paura è elevata a mantra quotidiano, in cui abbiamo paura delle parole, delle azioni, persino delle armi dei Looney Tunes, On the road ci viene a tirare un bel ceffone, dritto in faccia, e ci ricorda che il mondo non è una cartolina, non è un luogo di google maps che puoi visitare comodamente seduto sul tuo letto, non è nemmeno una bomboniera pulita e profumata da tenere sul comodino. Il mondo è lì fuori, spesso crudele e senz’anima. Senza nessun senso, se non quello che noi decidiamo di dargli.

Seguirà terza e ultima parte.