Di Jen

Era il 9 settembre del 1998, un mercoledì tranquillo a Milano, non fosse che nell’ospedale San Paolo si spegneva Lucio Battisti per cause ancora ignote ai più. Ma come può uno scoglio arginare il mare? Come può la morte fisica sgretolare le emozioni che ha trasmesso attraverso i suoi testi?

Lucio battisti era un ragazzo della provincia di Rieti, una personalità controversa che ha fatto sorgere mille dubbi ai critici. Al di là delle accuse che sovente gli venivano rivolte a livello musicale – si ricordi il giudizio fazioso di Natalia Aspesi che definisce la sua voce “stridente come chiodi” – si affiancano quelle inquisitorie alla sua personalità che ha sempre destato curiosità e sospetto.

Il ragazzo riccioluto e con il foulard al collo è stato dichiarato più volte fascista e, se è vero che lui non parla mai esplicitamente di politica, i suoi testi nascondono una vicinanza alla destra esistenziale: rifiuto del progressismo, del conformismo sessantottino che si aggrappava sul bello, buono e solidale scivolando troppo spesso nel qualunquismo e inoltre non c’è traccia di ostentazione di un femminismo disperato.

C’è poi da aggiungere il tanto discusso gesto all’orchestra che sembrava proprio essere un saluto romano e poi questo ragazzo di provincia si è permesso di scrivere planando sopra boschi di braccia tese, insomma sembrerebbe proprio essersele cercate le antipatie dell’accademia del gusto radical chic che sorvegliava e censurava qualsiasi cosa non gli andasse a genio. Insomma Lo Abracek, pseudonimo del cantante, sembra essere così nero che il Secolo XIX fa il grande sforzo di prendere il testo de Il mio canto libero e affiancare ad ogni verso le chiavi interpretative che avrebbero scaldato le anime dei missini.

Quindi, una volta capito che Battisti non era un compagno e appurato che non c’è traccia di antifascismo ammiccante nei suoi testi, ci si può concentrare sulla cosa più importante del gioco delle parti: l’eredità che ci ha lasciato, capace di emozionare senza mai stancare.

Esiste un Lucio Battisti di massa, un Battisti massmediologico, ma esiste soprattutto un Battisti dell’autoscavo. Ha svelato gli umori tormentati di una generazione, dando a questa possibilità di sogni e fughe da sé stessa. Un cantante che guarda da dentro sé stesso e si scopre attraverso la musica. Una timidezza interiore sublimata solo dai testi delle sue canzoni: niente di complesso e troppo elaborato, un professionista delle sette note che indagava sul fuoco che ardeva nei suoi coetanei in quegli anni in cui iniziava il processo di automazione e trasformazione in esseri amorfi.

In questo mondo che non ci vuole più ci affidiamo ancora a chi con una voce fuori dal coro ci ha insegnato che ciò che ci è caro in questa esistenza travagliata non può essere solo un’avventura.