Di Enrico

Ricorre oggi il bicentenario della morte di Napoleone Bonaparte. Il rivoluzionario, il generale, il conquistatore, l’Imperatore. Per alcuni (come Beethoven, che gli dedicò la sua 3a sinfonia “Eroica”, ed Hegel) la manifestazione terrena del Weltseele, lo Spirito del mondo, che incarna il senso della storia. Per altri un parvenu, un dittatore da operetta, un pallone gonfiato.

Tanto amato quanto odiato. Ovviamente amato da chi ha visto in lui lo Spirito del mondo e il prosecutore della Rivoluzione Francese. Odiato sia da chi (come gli Inglesi per esempio) lo ha considerato un portatore di caos, di disordine, sia da chi in lui ha visto un traditore degli ideali di quella stessa Rivoluzione Francese.

Napoleone fu certamente un uomo di contraddizioni, ma è risaputo che tutti i grandi uomini sono caratterizzati da tratti controversi. Come se poi, chiunque altro potesse essere inquadrato facilmente in un’unica definizione. Infatti, anche molti suoi ammiratori più illustri furono spesso pieni di contraddizioni. Basti pensare a Hegel; considerato da alcuni il padre del marxismo, da altri il padre del nazionalsocialismo. Un uomo che ogni 14 luglio (Presa della Bastiglia) per tutta la vita ha brindato in onore della Rivoluzione e che al tempo stesso individuava nello Stato Prussiano l’ultima e perfetta manifestazione dello Spirito assoluto. Insomma, un uomo del calibro di Napoleone Bonaparte non poteva che suscitare reazioni contrastanti persino nella mente di un grande filosofo come Hegel.

In Italia tutto questo però, fu vissuto in maniera molto particolare. Bisogna infatti tenere a mente che, a differenza di altre zone conquistate da Napoleone, l’Italia non era un’entità politica unita, era, purtroppo, una terra duplicemente sottomessa, da potenze straniere e dal sistema del Trono e dell’Altare. Fu proprio da questa condizione che nacque l’entusiasmo degli studenti, dei giovani e degli intellettuali italiani nei confronti di Napoleone durante la Campagna d’Italia del 1796.

Il generale scese nel nord Italia, dominato dagli austriaci (e dai loro alleati del Regno di Sardegna), con un’armata di “straccioni”; la maggior parte dei soldati non aveva neppure le scarpe e si racconta (probabilmente si tratta di una leggenda, ma non per questo meno iconica) che le poche unità di cavalleria di cui disponeva l’Armée d’Italie al momento della partenza per la campagna del 1796 erano in effetti prive di cavalli, perché i cavalieri se li erano mangiati per ottemperare alla scarsità di rifornimenti alimentari. Nonostante tutto questo, la Campagna d’Italia fu un trionfo; dopo aver sbaragliato l’esercito piemontese del Regno sabaudo, fu il turno degli austriaci. Il 15 maggio Bonaparte entrò a Milano, dove resisteva solo una piccola guarnigione austriaca, rintanata nel Castello Sforzesco (il resto dell’esercito era ancora impegnato nella disastrosa ritirata a seguito della batosta subita a Lodi qualche giorno prima).

Inutile dirlo, dopo una simile impresa, tra i giovani patrioti italiani il nome di Bonaparte divenne subito sinonimo di speranza. Per l’impresa si guadagnò persino il soprannome di Piccolo Caporale, datogli da uno dei suoi luogotenenti, Jean Lannes, dopo che lo vide guidare la carica al Ponte di Arcole alla testa dei suoi uomini reggendo la bandiera tricolore della Repubblica Francese.

Intanto, mentre il Piccolo Caporale proseguiva nel fare a brandelli l’esercito austriaco ormai in rotta, nacquero nel nord Italia delle nuove forme statuali: le prime di quelle che poi saranno le “Repubbliche Sorelle”.

Fu proprio in quel momento, che in Italia, l’entusiasmo verso Napoleone raggiunse il suo apice. Entusiasmo che, nonostante tutto, rimase immutato tra i patrioti italiani sino alla sua caduta definitiva a Waterloo. Per capire quanto questo sentimento sia poi rimasto nella nostra memoria collettiva, basti pensare al significato di Waterloo nella nostra lingua, infatti, quando diciamo “è stata una Waterloo”, intendiamo dire che è successo un disastro.

A questo punto è legittimo quindi chiedersi: perché una volta delusi, i patrioti non gli hanno voltato le spalle? L’esempio più eclatante probabilmente è quello di Ugo Foscolo, profondamente deluso, al tempo del trattato di Campoformio del 1797, quando Napoleone cedette Venezia all’Austria. Quando poi però il neo-Imperatore, preparò l’invasione del Regno Unito (a cui poi rinuncerà) tra le numerose truppe partite dall’Italia c’era proprio lo stesso Foscolo, agli ordini dell’Imperatore, pronto a credere ancora.

Si può capire che anche se delusi, quando posti davanti a una scelta, scelsero comunque di stare con Napoleone probabilmente perché nonostante tutte le contraddizioni in lui continuarono a vedere l’unico vero portatore dei valori della loro rivoluzione, insomma l’unico baluardo di speranza davanti alle vecchie monarchie. Oltre al fatto che, nonostante tutto, sotto Napoleone rinacque per la prima volta, dopo immemore tempo, un vero Regno d’Italia.

Molto interessante in tal senso fu la tesi della giornalista anglo-italiana Jessie White, attivamente partecipe al Risorgimento come infermiera nell’armata garibaldina, guadagnandosi per questo da parte di Mazzini il soprannome de “la Giovanna d’Arco della causa italiana”. Scrisse infatti, che il Regno d’Italia napoleonico altro non fu che la fase embrionale dell’Italia unita del 1861. Si può certamente considerare una tesi molto valida se si pensa che in effetti, poco dopo la caduta di Napoleone, iniziarono i primi moti risorgimentali.

Neanche quindici anni dopo la battaglia di Waterloo, sull’onda emotiva e ideale dei valori rivoluzionari portati dalle armate francesi, Giuseppe Mazzini era già al lavoro per la fondazione della “Giovine Italia”. Questo può far intende che forse, la sconfitta di Waterloo non fu poi così decisiva in un’ottica più ampia, perché nonostante l’effettiva sconfitta militare di Napoleone, le idee e i valori che egli portò in Italia e in Europa continuarono in un certo modo a circolare per poi culminare nei moti del ’48 e nella Primavera dei Popoli. Insomma, pur avendo sconfitto l’Imperatore, le potenze conservatrici e reazionarie non riuscirono comunque a riportare indietro le lancette della storia fino al 1789.

Il raggio dell’epopea napoleonica trovò un suo riflesso persino in epoca fascista. Lo stesso Mussolini nutrì una profonda ammirazione per l’Imperatore, al punto di commissionare all’amico e regista Giovacchino Forzano il film “Campo di Maggio”, nel 1935. Il film, incentrato sugli ultimi Cento giorni dell’Impero francese, suggerisce un ovvio parallelismo tra l’Imperatore e il capo del Fascismo e veicola un messaggio di antiparlamentarismo molto forte, facendo notare la necessità di un uomo forte al potere per il buon governo della Nazione e l’inutilità del parlamento.

Insomma, come già detto all’inizio, è estremamente complesso dare un giudizio sintetico e definitivo. Probabilmente Alessandro Manzoni nel suo “Cinque Maggio” ebbe ragione nel dire “fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza…”

Ancora oggi questa figura suscita reazioni contrastanti; non solo tra gli storici intenti a fare un bilancio complessivo della sua epopea, ma anche tra chi non appartiene a quella categoria di studiosi. Spesso i motivi dell’amore o dell’odio nei suoi confronti sono quasi gli stessi di quel tempo: amato come prosecutore della Rivoluzione Francese, odiato come traditore della stessa e così via…

Per quanto riguarda la nostra Nazione però, non c’è dubbio che i patrioti italiani abbiano voluto seguirlo fino in fondo, per tutti i motivi che già abbiamo elencato. Non c’è dubbio quindi, che nonostante tutto, sia dagli amanti che dai detrattori, un ringraziamento gli sia dovuto per ciò che ha rappresentato nella nostra storia.