di Enrico

Dopo tanto tempo, possiamo finalmente dircelo: il mito della Vandea controrivoluzionaria ha stufato.

Almeno dagli anni Settanta, la nostra area ha sempre nutrito (salvo rarissime eccezioni) un certo astio verso la Rivoluzione Francese, ergendo invece la controrivoluzione cattolica e monarchica nelle regioni di Vandea e Bretagna a mito da esaltare e celebrare come “ultima frontiera della tradizione”. Tuttavia, questa narrazione, a metà tra il mito e la realtà, dal punto di vista storico e politico è abbastanza imbarazzante, se non addirittura un controsenso. E ora vediamo perché.

Innanzitutto, da dove nasce la bizzarra idea che vorrebbe il Fascismo nemico della Rivoluzione Francese?

Andando molto a ritroso possiamo dire che nasce da due correnti di pensiero, tutt’altro che fasciste e contrapposte tra loro: l’antifascismo (liberale, socialista e comunista) che vede nel Fascismo un mezzo della reazione e il pensiero politico di Julius Evola, il quale in “Orientamenti” traccia un fantasioso fil rouge che collegherebbe la Rivoluzione Francese, con la democrazia liberale e con il comunismo. Oltre al ben più noto inizio della decadenza morale, del declino dei valori tradizionali, del materialismo e via discorrendo.

Scrive infatti Evola:

«Senza la Rivoluzione Francese e il liberalismo non vi sarebbero stati il costituzionalismo e la democrazia, senza la democrazia non vi sarebbero stati il socialismo e il nazionalismo demagogico, senza la preparazione del socialismo non vi sarebbero stati il radicalismo ed il comunismo”

(Julius Evola, Orientamenti, punto 5)

C’è solo un “piccolo problema” in tutto questo: il giudizio degli antifascisti sul Fascismo per noi dovrebbe contare assai relativamente ed Evola non era fascista: non si definì mai tale né diede motivo di definirlo come tale attraverso i suoi scritti. Egli anzi parlò anche di una sorta di equivalenza tra democrazia e totalitarismo (il che per noi dovrebbe essere già qualcosa da bollare come una balla clamorosa) sostenendo che si tratta in entrambi i casi di “governi di massa”.

Quindi, perché dovremmo prendere come riferimento dottrinale su tale questione un pensatore (che pure ha avuto diversi meriti come studioso delle religioni e non solo) che fascista non era?

Se molti nella nostra area conoscono queste pagine di Evola, quanti si sono chiesti cosa ne pensavano i fascisti veri e propri? Ebbene, se uno va a leggere attentamente cosa diceva lo stesso Mussolini a proposito della Rivoluzione del 1789, potrebbe avere delle sorprese:

«Di quale “contemporaneità” Spengler ritenesse degna la mia Rivoluzione, non mi spiego. Sarei stato fiero se avesse appaiato, temporalmente e ideologicamente, il Fascismo ai sogni giacobini di Robespierre, di Saint-Just, di Rossel, di Cipriani. I puri della rivoluzione militante»

(Yvon de Begnac, Taccuini mussoliniani)

Questa citazione è tratta dall’opera di Yvon de Begnac, che di Mussolini fu il biografo ufficiale. È interessante notare come anche Giuseppe Bottai riprese un discorso simile circa il parallelismo Rivoluzione giacobina – Rivoluzione fascista, più precisamente sulla rivista “Critica Fascista”, nel numero del 1° novembre 1926.

Da un discorso di questo tipo si possono individuare due punti fondamentali:

  1. La consapevolezza del capo del Fascismo dell’esistenza di radici comuni, all’interno della Rivoluzione Francese, di quasi tutte le ideologie politiche moderne (compreso il Fascismo).
  2. La volontà del movimento mussoliniano di lasciare un segno indelebile sulla storia del mondo, alla pari della Rivoluzione Francese e, perché no, anche della Rivoluzione Russa.

Emblema di questa volontà fu l’istituzione del conteggio degli anni secondo l’Era Fascista (a partire dal 28 ottobre 1922), ripresa esplicitamente dal calendario rivoluzionario francese che iniziava dal 22 settembre 1792, data di soppressione della monarchia e di proclamazione della Repubblica francese (tale calendario verrà poi soppresso da Napoleone Bonaparte che, in un’ottica di pacificazione, restaurò il calendario gregoriano).

Di opinione simile fu Renzo De Felice. Il quale, tra l’altro, prima di divenire il più affermato storico del Fascismo, si occupò meticolosamente dello studio del giacobinismo sia in Francia che in Italia.

Secondo la tesi defeliciana, si possono anzi individuare dei punti di contatto ben precisi tra l’ideale giacobino e il Fascismo. Analizziamoli passo per passo:

  1. L’ordinamento dello Stato. In accordo con le parole di Sergio Panunzio, amico personale di Benito Mussolini, il binomio fascista (fondato sulle corporazioni) di stato-società, sarebbe una rivisitazione del binomio stato-popolo nato con la Rivoluzione del 1789 e naturalmente differente dal binomio stato-classe proprio della Rivoluzione bolscevica russa.
  2. L’importanza dell’ideologia come “religione civile”. Tanto il regime fascista quanto quello giacobino si gettarono anima e corpo nella creazione di una religione civile che riunisse ed elevasse le masse in un’ottica democratico-totalitaria. È il culto della Rivoluzione che attraversa (in maniera ora simile, ora differente) entrambi i regimi.
  3. L’idea di necessità del terrore come mezzo di difesa delle conquiste della rivoluzione contro i suoi nemici. È bene specificare però che il terrore non è necessariamente permanente e che la “dittatura” è un mezzo necessario e transitorio. Si tratta, volendo utilizzare una semplificazione brutale, di “usare la ghigliottina fino a quando essa non sarà più necessaria”. Riecheggiano in questo senso le parole con cui Robespierre istituì il Comitato di salute pubblica, l’organo con cui il regime giacobino iniziò ad eliminare i nemici della rivoluzione:

«Il Terrore, senza il quale la Virtù è impotente. La Virtù, senza la quale il Terrore è cosa funesta»

(Maximilien de Robespierre, La Rivoluzione Giacobina. Scritti e discorsi)

  1. Il principio secondo cui la libertà dev’essere intesa in senso collettivo e non in senso individuale. La libertà per l’individuo si realizza solo all’interno della comunità nazionale. Sul piano politico questo si traduce nel principio, proprio tanto del regime giacobino (e poi napoleonico) quanto di quello fascista, che i cittadini sono liberi proprio in quanto non hanno nessuno sopra di loro se non lo stato. Stato nel quali essi si identificano e si riconoscono.

Lo Stato come “sostanza etica consapevole di sé”, per usare una terminologia hegeliana (pensatore molto caro al principale ideologo del Fascismo, Giovanni Gentile).

  1. Partendo da quanto appena detto sulla natura dello stato, si impianta un’ulteriore considerazione sul ruolo dello stesso: lo Stato come educatore (idea ereditata in toto anche da Giuseppe Mazzini, prima che da Gentile).

Perché lo stato sia “etico”, esso deve forgiare cittadini. Ha il compito di fondare la vita dell’individuo su valori e principi etici, indirizzando il comportamento dell’individuo verso il bene supremo, identificato nello Stato. Nelle monarchie assolute pre-rivoluzione francese, questo non sarebbe stato possibile: se lo stato è incarnato dal re e se il re governa per diritto divino senza dover rendere conto a nessuno delle proprie scelte, che senso avrebbe “educare” il popolo all’eticità, in un regime che si fonda semplicemente sul potere dispotico di un uomo? Non basterebbe semplicemente il potere di spada del sovrano (come teorizzato da Thomas Hobbes nel “Leviatano)?

Possiamo aggiungere un’altra cosa, che riguarda però non la questione prettamente ideologico-metodologica, bensì quella storica. E riguarda la storia della nostra nazione.

Il nostro Risorgimento è figlio diretto della Rivoluzione Francese e dell’epopea napoleonica. Molti degli elementi ideologici che abbiamo trattato sono stati ripresi a piene mani dalle anime più radicali del Risorgimento, soprattutto Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. E nella dottrina fascista, il Fascismo è erede e completamento del processo risorgimentale. È ribadito da Gentile nel Manifesto degli intellettuali fascisti ed è continuamente ripetuto negli scritti di buona parte dei fascisti rivoluzionari (anche di quelli che poi se ne sono distaccati). Citiamone anche solo uno, Curzio Malaparte:

«La Rivoluzione Italiana dell’ottobre (n.d.r.: Per differenziarla dalla Rivoluzione d’ottobre russa) non può e non deve ripetere gli errori del Risorgimento, finito in malo modo nel compromesso antirivoluzionario del Settanta, che preparò il ritorno al potere attraverso il liberalismo, la democrazia, il socialismo, di tutti quegli elementi borbonici, granducali, austriacanti, papalini che avevano sempre combattuto e bestemmiato l’idea e gli eroi del Risorgimento. È necessario che il Fascismo prosegua senza esitazioni il suo fatale cammino rivoluzionario»

(Curzio Malaparte su “L’Impero”, numero del 18 aprile 1923)

E ancora, su un’altra testata (Tecnica del colpo di Stato) sempre Malaparte definì senza mezzi termini i fascisti come “giacobini in camicia nera”.

Insomma, di elementi per capire in quale solco storico-politico si sia voluto collocare il Fascismo possiamo dire di averne forniti in abbondanza. Rielaborando, in modo anche un po’ polemico, la citazione di Evola da cui siamo partiti potremmo dire (rimarcando l’eredità rivoluzionaria del Risorgimento) che: “senza la Rivoluzione Francese non vi sarebbe stata la nascita dell’amor patrio, senza l’amor patrio non vi sarebbe stato il Risorgimento (e nel nord-Italia vi sarebbero ancora gli invasori austriaci, baluardo dell’Antico Regime), senza il Risorgimento non vi sarebbero stati né l’Italia né il Fascismo”.

In conclusione, spunti per riflettere, come abbiamo dimostrato, ve ne sono e non pochi.

Adesso, con gli elementi che sono stati dati, sta al lettore scegliere da che parte stare; con i patrioti e i rivoluzionari figli del tanto odiato 1789, oppure con un fronte tradizionalista che forse, oggi, ha perso la sua ragione d’essere.