Di Giovanni


Fin dalla loro nascita i social network sono spesso stati considerati uno spazio digitale libero, nel quale gli utenti potevano esprimere la loro opinione senza preoccuparsi troppo della censura da parte di terzi. Certe posizioni politicamente scorrette, per esempio, non troveranno mai spazio in prima serata sulla Rai, ma su facebook o su instagram chi abbraccia una visione in contrasto con lo status quo può, o meglio poteva, esprimerla più o meno liberamente. 

Doveroso è parlare al passato dato che negli ultimi anni quelle stesse piattaforme che prima permettevano una certa libertà di espressione ad oggi attuano invece una pesante censura nei confronti di certi utenti non allineati al pensiero unico. Diverse sono le forme di questa censura: si passa dall’oscuramento per un certo numero di giorni del proprio profilo alla rimozione di alcuni contenuti o addirittura alla cancellazione totale e senza possibilità d’appello del proprio account.

Molti si ricorderanno del ban che nel settembre del 2019 colpì i movimenti di CasaPound e Forza Nuova. I profili facebook e Instagram ufficiali di questi movimenti nonché quelli delle associazioni ad essi legate furono cancellati da un momento all’altro insieme agli account di centinaia di utenti considerati vicini alla cosiddetta “estrema destra”. Una censura attiva tuttora: pubblicare un post contenente i simboli dei movimenti sopra citati o semplicemente menzionarli comporta il rischio di perdere l’account o quantomeno l’eliminazione dei contenuti “incriminati”. 

Anche YouTube non è estraneo a questo tipo di ban: famoso fu il caso del canale di controinformazione “Byoblu” con circa mezzo milione di iscritti cancellato dalla piattaforma nel 2021.

C’è chi sostiene che questa censura sia legittima dal momento che i social network sono piattaforme private e quindi i proprietari hanno tutto il diritto di limitare certi utenti. Curioso notare come sovente i sostenitori di questa assurda tesi siano gli stessi liberal-progressisti autoproclamatisi paladini dei diritti civili. D’altronde questi soggetti, benpensanti allineatissimi col pensiero delle classi dominanti, mai hanno a che fare con ban e limitazioni sulle reti sociali. La scure della censura democratica colpisce gli utenti più politicamente scorretti, coloro i quali per esempio durante la pandemia mettevano in dubbio la legittimità delle restrizioni oppure chi ancora esprime opinioni contrarie all’immigrazione di massa che affligge il nostro paese e l’Europa in generale.


Considerato l’enorme utilizzo dei social al giorno d’oggi, venire esclusi da essi significa a tutti gli effetti essere messi a tacere di fronte ad un pubblico vastissimo. Non si può considerare valida la libertà di espressione se vi è chi decide dall’alto chi può parlare e chi no, in barba ad ogni costituzione occidentale che riconosce la libertà di parola come un diritto universale. Ne è un esempio anche la Costituzione Italiana (Articolo 11: Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione […]senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.)

Ancora più preoccupante della censura online è il servilismo dei governi nei confronti delle multinazionali tra cui per l’appunto Meta, il colosso americano dei social network. Se oggi i giganti della comunicazione di massa rimuovono utenti scomodi, un domani una multinazionale dell’hi-tech per ingrassare le proprie tasche potrebbe comandare l’installazione di un microchip sottocutaneo a tutti spacciandolo, ça va sans dire, come progresso (si parla in termini distopici ovviamente e volutamente esagerati, ma in futuro chissà!). E i nostri governi? Anziché tutelare la sacrosanta libertà di scelta imporrebbero divieti ad hoc per spingere ad installarsi il microchip, analogamente a quello che è accaduto con la vaccinazione contro il covid19. Basti pensare che nella avanzatissima Svezia, il paradiso in terra per i liberal-progressisti, è già possibile farsi installare questi dispositivi che tra le varie cose permettono di pagare semplicemente avvicinando la mano al pos. 

Da decenni la volontà degli stati nazionali occidentali passa in secondo piano rispetto ai diktat della finanza internazionale. Quello del sopracitato diritto di parola è solo uno dei tanti diritti che vengono calpestati dalle multinazionali con il benestare dei governi ridotti a servi del capitale internazionale. 

Ma come ci si domandava poc’anzi, che ne sarà della libertà e della volontà popoli europei se i nostri governi supinamente obbediscono alla volontà del capitalismo globale? Il monito è quello di restare in guardia affinché mai gli interessi di qualche miliardario dell’alta finanza prevarichino la libertà dei popoli sovrani.