Di Giulia

Un suggerimento anonimo, una rara prima edizione trovata per caso su Ebay, una folgorazione. Così nel 2017 una piccola casa editrice romana – Cliquot Edizioni – ha riportato alla luce un autore dimenticato, ma non per questo meno travolgente.

Sulla vita di Carlo H. De’ Medici, friulano di fine Ottocento, si sa ben poco. Collochiamo la sua nascita tra il 1877 e il 1887 e sappiamo che discendeva da una famiglia di banchieri parigini, vissuti però nel piccolo comune di Gradisca d’Isonzo, vicino Gorizia.

Una vita misteriosa, dunque, e segnata dalle stranezze: basti pensare che la Villa de’ Medici a Gradisca sorge sui resti di una fabbrica andata a fuoco. In effetti, egli affermava di essere un mistico, uno studioso dell’occulto e dell’esoterico.

I Topi del Cimitero, in particolare, è una raccolta di racconti del 1924 in cui l’autore eviscera una grande inquietudine e sensibilità. A questa espressione della frenetica attività interiore dell’autore, si sommano gli echi delle varie influenze che ha assimilato: troviamo gli elementi stilistici e narrativi dei pilastri del genere (Edgar Allan Poe, Huysman e Villiers De L’Isle, per esempio) in un linguaggio che ha molto del Decadentismo italiano e secondo la critica echeggia persino lo stesso D’Annunzio. CHD, così si firma, scrive con ritmo, in modo quasi lirico, mettendo in fila parole ricche, evocative, ma mai barocche, ridondanti o sbilanciate. Egli trova una sorta di equilibrio neoclassico tra ciò che è crudo, senza pietà, dritto al punto, e tutto quello che tende ad essere ricercato ed elegante.

I Topi del Cimitero inizia con un frate terrorizzato dai topi, sentinelle della decadenza, che rodono le fondamenta della chiesa. Stanno minacciando dall’interno, invisibili eppure rumorosi, i pilastri millenari della dimensione spirituale cristiana. Ma i topi non si accontentano: ciò che il frate teme più di ogni altra cosa è che mordano la luna, ”ostia consacrata” che illumina le sue notti di veglia. E con suo grande orrore, giorno dopo giorno, nella prima metà di un ciclo lunare, i topolini la rosicchiano lentamente, fino a che non rimane più nulla nel cielo notturno. Per il frate, paradigma del moderno uomo occidentale, che non conosce i ritmi dei corpi celesti ed i naturali alti e bassi del mondo che lo circonda, non c’è più niente in cui sperare. Al geocentrico che non ha consapevolezza della ciclicità eterna, quando si oscura la luna, resta solo il terrore di trovarsi soli in una natura da sempre ostile, dove la notte “fa diventare pazzi” e nessuno può sopportare il buio per paura delle streghe.

Carlo De’ Medici prosegue a vele spiegate, narrando dell’utopia grazie ad una nave chiamata Ad Astra! e della bellezza incomunicabile dei sogni, che solo i privilegiati possono cogliere. Ci parla dello spirito dionisiaco come di un’amante bellissima ed effimera, che corteggia l’artista, ma gli spezza il cuore e sparisce nel nulla quando lo vede diventare un noioso borghese. Però non finisce qui: tra una birra e una partita a dadi, l’autore ci porta in osteria, nel fulcro della sfida tra la morte e la vita, la prima che è forza creatrice, e plasma la carne viva dal fuoco e dalla terra, la seconda che livella e porta tutto a zero, rendendoci solo atomi, materia sfusa, inerte, destinata a disgregarsi. E dalla vista privilegiata di una finestra, mentre il sole cala, egli osserva questa materia che si muove, brulicante come un formicaio, e si chiede quali siano le forze che ci spingono a girare senza sosta e senza scopo, come i cavalli di legno di una giostra, tra banche, bordelli e grandi magazzini. Affronta il dramma di un treno che non abbiamo mai osato prendere, e si domanda come si possa andare avanti senza il desiderio di superare se stessi, di sfidare una frontiera, di cercare un Altrove. Non importa se poi alla fine scopriamo che è identico a questo. De’ Medici è come un Alexander Durden di inizio Novecento, che dà fuoco a casa nostra e ci grida di smettere di essere completi.

Per finire, dopo aver stretto il cappio su un groviglio di domande cruciali quanto universali, e dopo averle sciolte in concetti limpidi, le trascina nell’ombra dell’impossibilità di rispondere.

E una volta sfogliate tutte le pagine de I Topi del Cimitero, si percepisce ancora meglio il retrogusto amaro del libro. Ciò che emerge alla fine è l’eco del dolore di Dioniso di cui parla Nietzsche: è la disperazione dell’uomo come singolo, che ha rotto il suo rapporto con il Tutto, e non può più in alcun modo farne parte.

Ad Astra! Ad Astra! ho gridato, ebbro di sole, di vento, di spazio: puntando verso oriente la prua scintillante, in festa, del brigantino liberato”.

Le pecore – lo dicono i saggi – seguono pazientemente la loro strada. Lo so. Io, invece, che non amo le pecore ed odio i saggi, lascio che la mia strada mi segua”.