di Geox

La parola Automa richiama, fin dai tempi antichi, qualcosa che si muove, che agisce e che prospera senza l’intervento dell’uomo, a seguito della sua accensione. Basta un input, un brevissimo segnale di ingresso, che faccia partire la macchina e quest’ultima potrebbe funzionare all’infinito, almeno in un sistema ideale. L’Automa è un concetto utilizzato in fisica e declinato nelle più varie branche della scienza, dall’informatica pura alle scienze meccaniche, dalla teoria dei sistemi discreti fino alla biologia. È un termine che è indissolubilmente legato alla scienza e al progresso tecnologico, di cui negli ultimi anni siamo stati spettatori e (talvolta) anche cavie.

Se però, una volta, l’Automa era un meccanismo fisico, reale e tangibile che si muoveva senza interferenze del suo creatore, ad oggi può essere sia relegato al mondo del digitale e dell’incorporeo, come per esempio i Bot (contrazione di Ro-bot, algoritmi utili a catalogare, estrarre e distribuire informazioni su richiesta), oppure fondere insieme la fisicità stessa della meccanica e la capacità di mettere in relazione oggetti, situazioni e informazioni. In questo caso si sfonda il muro della fantascienza e ci si trova davanti ad un sistema complesso, dotato di movimento e di un “simil-raziocinio” autonomo. 

Tale definizione precedentemente virgolettata serve ancora a distinguere un essere realmente vivo, dotato di carne, muscoli e cervello pensante, da un oggetto capace di muoversi e di reagire a stimoli secondo processi fisico chimici predeterminati, ma pur sempre di origine artificiale. Molti teorici, robotici e scienziati si interrogano da tempo su un interrogativo simile. 

“Quando è giusto considerare “vivo” – e pertanto dotato di personalità fisica, non alla stregua di un animale, ma un pari umano – un oggetto di origine artificiale che 

  1. Pensa in modo autonomo e non predeterminato?
  2. Si muove in modo autonomo e non predeterminato?
  3. Ha pulsioni e desideri autonomi e non predeterminato?
  4. Aiuta l’essere umano e riesce a comprenderne appieno ragioni, motivazioni e azioni?

Interrogativi che non intendiamo arrogantemente affrontare ora. Rimangono però gli scritti, incisi nell’acciaio fino a quando l’Uomo non riuscirà a capire quale sarà la linea da non oltrepassare. 

Rimanendo però con i piedi per terra, prendiamo alcuni esempi noti: la letteratura e il cinema di fantascienza hanno a più riprese profetizzato l’avvento di una società in cui le macchine avrebbero affiancato, ed in seguito magari soppiantato gli esseri umani. Dal dramma dello scrittore ceco Karel Čapek “R.U.R.” del 1921, prima opera in cui viene usato il termine “robot”, fino a “Her”, film del 2013 in cui il protagonista si innamora di un’intelligenza artificiale che si esprime attraverso una voce femminile (ma gli esempi cinematografici degli ultimi anni sono tantissimi), le macchine più o meno senzienti hanno fatto capolino nell’immaginario umano. 

Osservando il processo col senno di poi, emerge che la crescente invadenza della tecnologia ha prodotto di pari passo crescenti inquietudini: molte opere sono come un disperato grido di avvertimento, un messaggio in bottiglia abbandonato in un buco nero. Nell’estate del 2020 è entrato in servizio in un locale di Milano “Toni”, il primo barman robot d’Italia. Con i suoi bracci meccanici, Toni è in grado di produrre un cocktail ogni 30 secondi. Le ordinazioni si prendono tramite la solita app, in modo da azzerare ogni contatto umano (ça va sans dire, “per ridurre il rischio di contagio”). E non è l’unico. Una ditta svizzera che produce un certo Barney (altro robot barista), così lo presenta ai potenziali acquirenti: 

“Pensiamo che Barney possa essere un’attrazione divertente, che può portare le persone in un bar perché è in continuo movimento ed è così diverso”. 

Tolto il lavoro manuale, che cosa rimane quindi all’Uomo? Chiaramente quello mentale, che seppur bistrattato e trattato alla stregua di una mezza eresia in una società opportunista, materialista e consumista come quella odierna, risulta essere l’unico campo in cui (fino ad ora) non ha rivali. Ed è qui che inizia l’esperimento interessante: la creatività, l’arte pensata e realizzata dall’intelligenza artificiale è possibile? 

Difficile dare un riscontro definitivo già adesso, quel che invece è certo è che si sta provando a capire se possa essere qualcosa di effettivamente possibile. A cominciare dal cinema: è stato infatti presentato all’ultimo festival di film fantascientifici Sci-Fi London un cortometraggio la cui sceneggiatura è stata interamente scritta da un computer. Si chiama Sunspring, dura poco meno di 10 minuti, ha un regista umano, Oscar Sharp, e attori umani. Il protagonista è Thomas Middleditch, conosciuto per la serie tv Silicon Valley. La trama è invece interamente pensata da un robot. Il risultato è chiaramente imperfetto, ma potremmo essere di fronte ad una nuova, incredibile e inquietante evoluzione del “progresso” tecnologico. 

Nel dettaglio, il film tratta di una drammatica storia d’amore, che ad un primo impatto fa più ridere che commuovere o angosciare. I dialoghi, in inglese e per forza sottotitolati (neppure un anglofono troverebbe un filo logico alla prima visione) in quanto decisamente sconnessi di battuta in battuta, la consequenzialità degli eventi parecchie volte è tutt’altro che lineare. Somiglia ad un delirio post assunzione di funghetti allucinogeni. 

Benjamin, l’intelligenza artificiale che ha partorito tutto quanto (incluso il suo stesso nome, inquietante ndr) è stata creata da Ross Goodwin, un ricercatore informatico della New York University, ed è stata istruita nella sottile arte della sceneggiatura a seguito di immissione di screenplay di alcuni dei più famosi film di fantascienza degli ultimi decenni (Interstellar, Il quinto elemento, Ghostbuster e via dicendo) al fine di far entrare nei suoi circuiti i termini, le trame tipo, le ambientazioni e i dialoghi più frequenti e ricorrenti nei film di questo tipo. Gli attori, dopo essersi fatti una grassa risata in seguito alla lettura del copione emerso, hanno rispettato dialoghi e situazioni esattamente come Benjamin li ha offerti.

Leggendo i dialoghi, la frequenza con cui sono state inserite le battute “non lo so” e “non sono sicuro”, è un chiaro retaggio di molti film di fantascienza in cui i personaggi cercano di capire il contesto in cui si trovano e il perché ci sono finiti in mezzo, pertanto possiamo desumere che Benjamin sembra essere in grado semplicemente di cogliere ciò che da un punto di vista formale è maggiormente ricorrente, ma senza intuirne il senso e la funzione. Prerogativa che, grazie al cielo, è ancora appannaggio esclusivo dell’essere umano.

Chiosa a piè di articolo, che lascia un velo di inquietudine: parrebbe che l’intelligenza artificiale abbia trovato il modo per violare il sistema informatico che gestisce le votazioni online per ottenere la vittoria e far pubblicare la propria storia…