di Bianca

Dall’inizio di questo secolo la medicina forse non ha mai avuto più rilevanza che negli ultimi anni. E non si parla solo della ormai pluricitata pandemia: una sclerosi tutt’altro che intenzionata ad avere fine, ben consapevole del potere politico che ne è scaturito. La medicina, in passato strumento a disposizione e protezione dell’uomo, oggi viene strumentalizzata non solo come mezzo di propaganda, ma anche come giustificazione di qualsiasi malessere, come qualcosa che determina l’indice di sofferenza e che conferisce lo status di vittima; quando non rimedia a ogni capriccio spacciato per dolore, se ne abusa.

Entrando nel campo della medicina si entra inevitabilmente anche in quello sociale, trattandosi della scienza più vicina all’uomo. Farlo nel nostro tempo significa inevitabilmente scontrarsi con l’ideologia imposta dell’essere inclusivi, perché come la società anche la medicina deve essere open minded, egualitaria, senza differenze. Anche la medicina deve costantemente presentarsi al tribunale del politicamente corretto per dimostrare di avere la fedina pulita da qualsiasi possibile accusa di -ismo poco gradito dal sistema, cancellando ogni sintomo di discriminazione. E quando il singolo individuo sostituisce la comunità, o qualsiasi forma di collettività, viene assecondato ogni sentimento di esclusione di chi si sente “vittima” perché “diverso”, dove la diversità è l’incapacità di conciliarsi con il mondo dell’uguale: quindi va immediatamente risolta, a prescindere dalla sua natura, perché il diverso non è ammesso.

Non stupisce quindi che l’utilizzo dei farmaci negli ultimi anni abbia conosciuto un aumento senza precedenti, soprattutto per quanto riguarda gli antidolorifici, complice la gestione dell’emergenza sanitaria del Covid. Si parte dai sedativi per i più “comuni” problemi di ansia e insonnia, arrivando agli antidepressivi e agli psicofarmaci in risposta all’ansia cronica e alla depressione post-pandemia. Il consumo degli antidepressivi dal 2018 è cresciuto dell’8%, e l’assunzione di psicofarmaci ansiolitici è aumentata del 4% solo nei primi sei mesi del 2020 (dati dell’Istituto Europeo per il trattamento delle dipendenze). Se nel 2018 le pillole antidepressive vendute avevano raggiunto i 960 milioni, la stima di quest’anno ne prevede un miliardo e 32 milioni.

Da parte del governo è stato recentemente messo a disposizione il bonus psicologo, a favore dei cittadini con Isee inferiore a 50 mila euro per affrontare le spese di assistenza psicologica, e ulteriori dati confermano il boom dei consumi, con 113 mila domande raccolte nei primi tre giorni dall’Inps. Il sostegno psicologico viene chiaramente accompagnato da terapie farmacologiche, che Enrico Zanalda (presidente della società italiana di psichiatria) descrive come “farmaci di nuova generazione che hanno un effetto positivo anche su attacchi di panico, disturbi di ansia generalizzata o fobia sociale, con minori effetti collaterali”. Antidepressivi ad ampio raggio, che quindi verranno prescritti non solo in caso di depressione, ma anche per “la sicurezza del soggetto e la sua padronanza dei sintomi emotivi”. Di fatto, non si risolve il problema, ma lo si asseconda limitandosi a contenerlo.

In questa logica rientra anche la gestione della disforia di genere, con i supporti farmacologici che anticipano la transizione chirurgica vera e propria. Un disagio a cui viene data visibilità invece che una terapia, diventando un trend e non più una patologia che merita la giusta attenzione. Perché tutti i malati sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri, rifacendosi in parte alla celebre citazione di Orwell. È un testa a testa del “io soffro più di te”, “sei tu che mi discrimini, non io, ecco perché soffro, ecco perché non sono felice” (tradotto per il sistema del capitale: “oggi produco meno degli altri per come mi sento, e quindi sono diverso dagli altri”.)

Che sia per l’identità sessuale o per la stabilità mentale, alla base di questa retorica si trova un malessere che è il centro della mentalità del nostro tempo e che risponde alla logica della società produttiva. Nel capitalismo, l’individuo deve essere perennemente produttivo, una costante fonte di guadagno, sempre operativo e a disposizione delle tendenze perché le sue scelte (e le sue sofferenze) ne siano vincolate. Deve quindi essere non realizzato ma felice, non in salute ma in pace con il suo corpo, non guarito del tutto ma curato temporaneamente per garantirne la produttività per almeno quelle 8 ore giornaliere.

Una società malata, che continua ad avvelenarsi e a trovare cause del suo malessere per curarsi e trovare un’altra ragione per soffrire. Un circolo vizioso dove il dolore non si realizza pienamente, non si manifesta nel sacrificio né viene affrontato nella sua sofferenza per essere superato. Bisogna soffrire per qualcosa, qualsiasi essa sia, ma a giorni alterni, dove la cura non risolve nulla se non temporaneamente, così da sentirsi più legittimati degli altri a soffrire. La società del nostro tempo è la sua stessa malattia, e l’unica cura possibile è sradicare il sistema che la sostiene in ogni sua forma.