Di Sergio

Roma, 23 sett – L’Europa occidentale è ancora raccontata come un’“oasi” di stabilità, distante dalle guerre civili che hanno segnato il “sud globale”. Ma il quadro che emerge dalle analisi più aggiornate è meno rassicurante. In un’intervista ripresa anche in Italia, il professor David Betz (King’s College London), studioso di guerra e di conflitti irregolari, sostiene che le condizioni strutturali per conflitti interni in Europa sono già presenti: non un domani remoto, ma una possibilità concreta nel prossimo ciclo politico. L’idea di un continente definitivamente pacificato risulta, alla prova dei fatti, fragile. Betz non ragiona per slogan: richiama dinamiche profonde — fratture identitarie, mutamenti demografici, crisi di fiducia — che, combinate, possono far saltare i meccanismi di mediazione politica.

I tre “pilastri” della crisi in Europa secondo Betz

Al centro della sua diagnosi ci sono tre linee di rottura. La prima è la polarizzazione identitaria. La politica non è più confronto tra programmi, ma competizione tra appartenenze: l’identità prevale sui contenuti. Betz cita il caso britannico, dove una parte dell’elettorato musulmano ha dato vita a un movimento “tematico”, concentrato su questioni internazionali come Gaza e meno interessato alla politica interna, segnale di un linguaggio civico che non è più condiviso. Se il compromesso liberale ha bisogno di un terreno simbolico comune, quando quel terreno scompare la mediazione si inceppa. La seconda linea è il downgrading della popolazione maggioritaria: in vari Paesi europei i nativi potrebbero diventare minoranza entro una generazione; per il Regno Unito Betz indica la soglia del 2060. Più dei numeri, pesa la percezione: per larghi strati sociali il mutamento non appare come evoluzione spontanea, ma come sostituzione etnica favorita da élite “post-nazionali” impegnate a rimuovere barriere a persone, capitali e idee. Qui si apre un varco tra governo e governati che corrode la legittimità. Il terzo pilastro è il crollo della fiducia. Betz lo definisce “capitale sociale” senza il quale i conflitti non si risolvono più pacificamente. La credibilità di politica, media, forze dell’ordine, magistratura, chiese e persino della medicina è scesa in più Paesi a livelli a una cifra. Se a questo si sommano stagnazione di produttività e innovazione, burocrazia ipertrofica e debito pubblico crescente — con l’esempio della Germania, un tempo modello di disciplina fiscale — il rischio sistemico si amplia. I giovani pagano il conto: redditi stagnanti, casa inaccessibile, incertezza familiare e previdenziale. Si rompe l’idea-contratto che ogni generazione vivrà meglio della precedente.

Dalle analisi agli scenari: perché lo “shock” in Europa può essere rapido

La traiettoria che va dalle condizioni alla rottura ovviamente non è lineare. Betz evoca un precedente istruttivo: la Jugoslavia dei primi anni ’90. Nel 1990, la maggioranza giudicava “buoni” i rapporti interetnici; due anni più tardi, il Paese precipitava in massacri e pulizie etniche. A fare da accelerante fu anche il normalcy bias, il pregiudizio per cui “poiché oggi tutto funziona, domani sarà lo stesso”. La lezione è che tutti i sistemi hanno l’interesse a mostrarsi come eterni, ma la verità è che sono stabili finché non lo sono più. Da qui, Betz articola due linee di potenziale scontro. La prima è lo scenario delle violenze urbane diffuse, con frizioni tra autoctoni e nuovi arrivati che degenerano in scontri a macchia d’olio. La seconda è lo scenario di una insorgenza politica dei “governati” contro élite post-nazionali, una sorta di guerra “a bassa intensità” fatta di episodi mirati e contro-reazioni di apparati statali o di sicurezza privata. In entrambi i casi, la geografia del conflitto sarebbe interna e reticolare, più simile a una somma di crisi locali interconnesse che a una guerra “classica”. La domanda che segue naturalmente è: quanto è probabile tutto ciò? Qui Betz richiama il lavoro comparato della politologa Barbara F. Walter sui fattori che aumentano il rischio di guerra civile (anocrazia, fazionalizzazione identitaria). Dove quei fattori si combinano, il rischio annuo si aggira intorno al 4%, che su un orizzonte di cinque anni vale circa il 18,5%. Numeri che non annunciano destino, ma misurano una finestra di vulnerabilità. Un’altra osservazione di Betz riguarda il contagio regionale. Se un Paese chiave — la Francia è l’esempio ricorrente — entrasse in crisi, la probabilità di diffusione nei Paesi vicini crescerebbe sensibilmente. Non è una legge fisica, ma un dato storico: gli shock sociali viaggiano attraverso confini economici, mediatici e culturali.

La Francia come laboratorio: “Bloquons tout” e l’erosione della governabilità

Le scosse telluriche che attraversano Parigi negli ultimi mesi illustrano bene la difficoltà delle democrazie europee a contenere tensioni sociali ormai trasversali. La mobilitazione “Bloquons tout” ha paralizzato ampie aree del Paese e, al di là della sua composizione eterogenea, segnala una sfiducia sistemica verso gli strumenti ordinari di rappresentanza. Secondo il Ministero dell’Interno, il 10 settembre 2025 hanno partecipato circa 175.000 persone in 550 manifestazioni e oltre 260 operazioni di blocco, in un contesto politico già segnato da dimissioni lampo e da una maggioranza parlamentare ingovernabile. Che lo si legga come “onda sociale” o come “sciopero della fedeltà”, resta il dato: l’ordine repubblicano è meno solido di quanto appaia. Se la Francia mostra la crepa più visibile, l’Italia condivide molte fragilità: crescita anemica, demografia negativa, divari territoriali, capitale sociale in erosione. Qui la tesi di Betz sulla fiducia trova una sponda intuitiva: quando la promessa intergenerazionale si rompe — redditi, casa, famiglia, sicurezza previdenziale — il rapporto fiduciario con lo Stato si sfilaccia e la domanda di protezione si trasforma in domanda di discontinuità. Il punto non è prevedere “la data” di un’eventuale rottura, ma comprendere la direzione: il sistema regge finché riesce ad assorbire gli urti; quando le crepe si sommano, basta poco per passare dalla turbolenza al vortice. Infatti, nello scenario in cui si accennava prima in cui la frattura non si traduce solo in caos urbano e scontri sporadici, ma in una vera e propria insorgenza politica dei “governati contro le élite post-nazionali”, si introduce un discrimine netto: la differenza tra violenza cieca e conflitto organizzato che può trasformarsi in fondazione di un nuovo ordine. Infatti, se lo scenario urbano ricorda il collasso jugoslavo, quello dell’insurrezione nazionalista richiama piuttosto i momenti in cui la storia europea ha conosciuto rotture epocali: dal colpo di stato del “18 brumaio” che pone fine al Direttorio, alla stagione rivoluzionaria 1919-1922 che abbatte lo stato liberale. Nella storia è sempre emersa la possibilità che un’avanguardia organizzata trasformasse il caos in ordine.

Oltre i dati: Faye e la “convergenza delle catastrofi”

Fin qui la parte più “positiva” dell’analisi, nel senso di empirica. Ma sul piano metapolitico vale il confronto con Guillaume Faye. A cavallo del nuovo millennio, in testi poi ripubblicati, Faye già parlava di “convergenza delle catastrofi”: crisi economiche, geopolitiche, demografiche, ambientali e culturali che si alimentano reciprocamente, spingendo verso un “punto di rottura” e aprendo — nel dolore — la possibilità di una nuova civilizzazione. Non fatalismo, ma diagnosi: il “sonno” liberale non dura all’infinito, e la storia ritorna con il suo repertorio di identità, confini, religioni, guerre. Gli anni 2010 e 2020 hanno dato concretezza a quell’intuizione: crisi finanziarie, pandemia, Ucraina, Gaza, rinnovata rivalità fra potenze, immigrazione di massa. In questa cornice, la crisi europea non è un’anomalia: è una delle linee di intersezione. Il merito di Faye, al netto di toni che potrebbero sembrare “apocalittici”, è aver intuito la dimensione di senso della crisi: il problema non è solo “quanto” rischio abbiamo, ma che cosa siamo quando il rischio si manifesta. Una società educata alla delega, al consumo e alla de-drammazione permanente fatica ad affrontare l’imprevisto; una comunità con una cultura del limite, della responsabilità e del conflitto regolato ha più risorse. In questo, la sua “profezia” non sostituisce l’analisi di Betz: la completa offrendo un orizzonte interpretativo che può interessarci.

Il ritorno del conflitto come variabile strutturale

Il nodo quindi non è più chiedersi se esista un rischio di guerra civile in Europa, ma quale forma esso possa assumere. L’esperienza storica insegna che i sistemi incapaci di governare il conflitto finiscono per scivolare verso la sua espressione più distruttiva: la violenza diffusa, cieca, priva di progetto. È lo scenario che Betz paventa quando parla di “scontri urbani su larga scala”, una “guerra tra poveri” in cui la rabbia sociale si consuma senza produrre trasformazioni reali. In questo contesto, l’inerzia delle élite non è neutralità, ma scelta: lasciare che la frattura si incarni nella forma più funzionale al mantenimento del potere, ovvero nel caos controllato che giustifica più sorveglianza e più repressione. L’alternativa non consiste nel rimuovere il conflitto, né nel continuare a coltivare l’illusione di società pacificate da leggi, procedure e consumi. Consiste piuttosto nel riconoscerlo come dimensione strutturale, inevitabile, e nel tentare di ri-politicizzarlo: trasformarlo in energia fondatrice, in possibilità di rinascita, in occasione per ridisegnare un ordine. Qui le traiettorie di Betz e Faye, pur lontane per stile e linguaggio, convergono. Il primo misura il rischio, il secondo lo interpreta come segnale di un ciclo storico che si chiude. Entrambi mettono in guardia contro l’autoinganno: credere che il domani sarà come l’oggi solo perché l’oggi sembra ancora reggere.

Come entrare nella tempesta

Il punto decisivo è che negare la crisi non la fa sparire. Anzi, il rifiuto di nominarla consegna la società al peggiore degli esiti: subirla nella forma imposta dalle circostanze. Vederla, invece, significa riconoscere che il conflitto non è un’anomalia, ma un motore. Che l’Europa non può più illudersi di essere un continente fuori dalla Storia, ma deve decidere come entrare nella tempesta. Se come massa disgregata che subisce il caos, o come comunità consapevole che lo attraversa per rifondarsi. La posta in gioco è radicale: o l’Europa si riduce a laboratorio sociale per oligarchie globali, priva di autonomia e ridotta a mercato, oppure ritrova nel conflitto la propria forza costituente. Le nuove generazioni, demograficamente già minoranza ed etnicamente sotto assedio, portano il peso maggiore, ma anche la possibilità più grande. Solo se sapranno trasformare la condizione di vulnerabilità in coscienza storica e in organizzazione comunitaria potranno guidare la tempesta invece di esserne travolti.

Blocco Studentesco